Da Happy Days a Chernobyl: il rifugio dello spettatore
Che si stia vivendo una nuova Golden Age televisiva è ormai banale dirlo. Le produzioni seriali negli ultimi anni sono il fiore all’occhiello di una poetica che, forse più del cinema, non solo ha dato una sferzata rinvigorente all’intrattenimento, ma altresì trasformato radicalmente la fruizione, vedi alla voce Netflix e i suoi derivati.
Sono diversi i filoni su cui vediamo spingere la maggior parte delle produzioni attuali, ma solo alcune spiccano tra tutte. I drammi in costume o ambientati in tempi lontani, e le riproduzioni storiche, quasi maniacali, di fatti realmente avvenuti.
Alcuni titoli tra tutti: Game of Thrones e Chernobyl.
L’uno, l’epopea dal sapore medievale che ha trascinato nel delirio per otto stagioni una nutrita fandom a più livelli mediali, a partire dalla lettura dei libri del suo autore, George R. R. Martin fino alla spasmodica condivisione di meme sui social. L’altra, la ricostruzione del disastro nucleare del 1986, tragico, mortale e occultato quanto basta dal governo russo per suscitare mistero, paura e fascino ancora oggi (e sorvoliamo sull’impennata turistica scaturita dalla serie attorno a Pripyat, dove un mucchio di persone sta cominciando a fotografarsi in mezzo alle carcasse radioattive della città).
Ora, al netto della maestosità della produzione, del battage pubblicitario e della bravura attoriale, perché queste serie piacciono? Perché loro più di altre?
A questo punto è bene tirare in ballo Happy Days. Sì, Happy Days, Arthur Fonzarelli, Richie Cunningham e l’America dorata degli anni ’50, che ha fatto impazzire il pubblico durante anni non propriamente idilliaci: la serie è del ’74, era un periodo duro, in piena Guerra Fredda, la Guerra di Corea e la disfatta del Vietnam un problema drammatico.
Ecco, se riuscite a proseguire con questo paragone, potreste aggiungere voi i tasselli mancanti, e magari cogliere come, nei periodi più difficili della storia, l’essere umano tenda a guardarsi indietro, cercando nel rassicurante passato qualcosa di gratificante, familiare, un ritorno a un ambiente uterino, confortevole perché conosciuto.
Anche se la dinamica di Game of Thrones non è certo allegra e spensierata, il mondo raccontato ha ancora connotazioni certe, un immaginario conosciuto, confortevole pur nella sua asprezza. Dall’altro lato Chernobyl sposa un’altra prospettiva: il passato che allora era oscuro, col senno di poi è dolorosamente chiaro, o comunque è stato possibile organizzarlo tanto da poter essere raccontato. Aggiungeteci la riscoperta sensibilità ambientale degli ultimi anni e qualche riflessione sul sempreverde dibattito dei limiti della scienza e della fragilità umana in un mondo alla deriva che noi stessi abbiamo contribuito a usurpare: il risultato non può che essere vincente.
Sicurezza, dicevamo. Lo spettatore oggi vuole una carezza sulla testa, non importa da che mano, anche una dura e ruvida può andare, ma pur sempre una carezza consolante, perché quando il presente è incerto e il futuro un’incognita più buia della notte, la gente scappa verso ciò che conosce, ricercando magari risposte a domande sul proprio oggi.
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