La Grande Bellezza: un film cartolina
Ho visto “La Grande Bellezza” solo qualche settimana fa, poco prima che vincesse il Golden Globe come miglior film straniero. Non so perché non l’ho fatto prima: semplicemente, ci sono pellicole che aspettano il momento giusto per essere viste.
Il film è senza ombra di dubbio ben sopra la media di ciò che offre la produzione cinematografica nostrana.
Tuttavia non è un capolavoro. Si sopravvaluta, gigioneggia come il suo protagonista Gep, esagera senza però arrivare al cuore. Si vede che a Sorrentino piace la macchina da presa: le sue inquadrature sono virtuosismi tecnici, giochi di grandangolo, eccezionale uso della fotografia. Epperò, come in “This must be the place”, Sorrentino colleziona immagini senza farci davvero una storia. Senza arrivare al dunque. Ne “La Grande Bellezza” le emozioni rimangono circoscritte tra gli scorci di Roma, che comunque entusiasmerebbero anche un cieco. Il resto è un grosso punto interrogativo: cosa avrà voluto dire, davvero, Sorrentino?
La vita di Gep è un sogno dai personaggi deformati, con richiami quasi spudoratamente felliniani, e questo lo abbiamo letto un po’ ovunque: l’ingombrante paragone con "La Dolce Vita”, la nana, la tettona, il circo, il cardinale. A differenza di Fellini, però, queste sono caricature senza tridimensionalità. Col profilo dello Sceicco Bianco, la gigantessa del Casanova, lo sguardo della Gradisca, Fellini costruiva un ricordo, simboleggiava una perversione, disegnava un’esistenza in cui tutti sapevano riconoscersi. La gobba di un naso riusciva a parlare all’universale. Ne “La Grande Bellezza”, il susseguirsi di maschere non offre appigli allo spettatore in cerca di umanità. Si ritrova piuttosto a osservarle come un turista osserva le opere d’arte di un museo abbandonato. Lo stesso Servillo scorre attraverso Roma come un estraneo, senza quel coinvolgimento affettivo che invece ci si aspetterebbe dal suo personaggio.
A differenza di altre opinioni che ho letto in giro, non trovo che il film rispecchi necessariamente l’Italia di oggi. È un affresco pittoresco senza tempo, e immagino sia per questo che è piaciuto agli americani. Perché riflette quel fascino eterno di un Paese sempre uguale a sé stesso, immutato come una cartolina sgualcita e mai comprata, raccolta e poi lasciata sull’espositore. Mi domando però cosa di questo appassioni gli italiani. L’ennesimo ritratto dell’italianità, della decadenza intellettuale, culturale e borghese della loro nazione? Io credo che in fondo anche per loro “La Grande Bellezza” sia solo una foto da rimirare, che non riflette nulla se non sé stessa, in un preoccupante autocompiacimento.
L’unico, isolato accenno al reale lo offre il personaggio di Carlo Verdone, Romano, che si congeda al pubblico e a Servillo con un “Roma mi ha molto deluso”. Ed è forse questa affermazione, più di qualunque altra presente nel film, che aiuta a collegare i fili ingarbugliati di una storia fatta di chiacchiere in terrazza, festini, vacuità, fenicotteri ed elucubrazioni sul tempo che fu. Quel “Roma mi ha molto deluso” è il perno attraverso cui dare senso, per quanto possibile, a tutto quel vagabondare, ciarlare, citarsi addosso.
Forse Servillo vincerà l’Oscar. Da italiana, ne sarò orgogliosa. Da cinefila, un po’ meno.