Se durante la pandemia la pubblicità sostituisce l’arte
Arriverà un giorno in cui qualcuno racconterà quanto accaduto e ci farà una storia, delineando un solco, tra il prima e il dopo. Ad oggi guardiamo i film con una sensazione di estraneità quando ci sono scene di quelli che oggi riconosciamo come “assembramenti”, di assenza di distanze metriche o della mancanza di mascherine sui volti dei protagonisti. Sembrano appartenere alla categoria fantasy, quei film, perché ormai non più aderenti alla realtà che riconosciamo ogni giorno e a cui tristemente ci siamo dovuti abituare.
Riuscirà il cinema, il teatro, l’arte in generale a decifrare quanto stiamo vivendo e abbiamo vissuto? A spiegare con una trama le emozioni che ci hanno travolti?
Sono tanti i progetti che sembra dovranno svilupparsi nei prossimi mesi sul tema lockdown: Muccino ha detto di volercisi dedicare con un’iniziativa ad hoc, ma anche Raoul Bova, rimanendo in Italia, ha annunciato di voler girare una serie tv sul tema.
Nel frattempo l’arte è ancora ferma, travolta com’è dai numerosi avvenimenti che stanno scuotendo il mondo. Allora, incredibilmente ma neanche tanto, a intuire quanto vissuto ci sta pensando la pubblicità. Lo ha fatto durante la quarantena, giocando con una serie di messaggi standard dedicati alla forza degli italiani che resistono, alla resilienza, al “ci siamo dovuti fermare”, riesumando addirittura vecchi jingle per cullarci all’interno di un utero di ricordi, immersi com’eravamo in un tempo sospeso fatto di troppi pensieri per accorgerci davvero di quanto stava accadendo.
E lo fa anche oggi, con i vari “siamo tornati”, “l’Italia riparte”, “è tempo di ricominciare” e così via, in una narrazione del ritorno che rimesta e plasma le nostre azioni, mirabilmente deviate verso l’acquisto di chi ci rimarrà a canto in tutta sicurezza, ovvero i brand.
Ci siamo dunque. È arrivato quel momento in cui sono solo gli spot a raccontare i tempi, essendo stato lasciato libero lo spazio dal resto delle arti, bloccate logisticamente dal virus. Torneranno anche loro, certo, ma sarà dopo. Quando molto sarà già stato descritto. A onor del vero anche la televisione ci sta provando, dal canto suo: “(R)Esistiamo” è il docufilm che Italia Uno sta mandando in onda per raccontare i giorni della quarantena di un gruppo campione di italiani. In Spagna, il progetto “Madrid, Interior” analizza un mese di lockdown attraverso il medesimo format. Infine, “Lockdown 20” è il film collettivo che riunisce più registi per mostrare le sfaccettature di questo periodo, un po’ come fece “11 settembre 2001”, che racchiudeva gli sforzi comuni di più registi per dare anima al trauma dell’attentato delle Torri Gemelle. Non fu un film memorabile, verrà ricordato più come documento storico artistico che come manifesto dell’epoca.
Probabilmente accadrà lo stesso: ci vorrà tempo per capire quanto sta accadendo, e l’arte, seppur alla continua ricerca di un significato, non è ancora pronta per elaborare il trauma attraverso il suo lungo sguardo. Diamole tempo. Nel mentre, saranno la Barilla, il Mulino Bianco o la Lavazza a tenerci la mano ed asciugarci le lacrime del trauma, veloci e immediati come solo il capitalismo impone.