Allocco di una notte di mezza estate
Sovente in questo periodo fatico a prender sonno.
Vuoi per il caldo, vuoi per la "zanzaresca" presenza di turno mi giro e rigiro senza posa frullando le lenzuola.
Intanto le ore trascorrono e il cuore della notte non si fa attendere: in tali faccende affaccendata sopraggiungono le due, si allungano poco a poco come un’ombra e il silenzio è irreale, conscia del fatto che l’alba non è poi così vicina come vorrei.
Ebbene, in questi frangenti, da brava strega, non posso fare a meno di ghermire una storia tenebrosa.
Ora sono alle prese coi racconti di Théophile Gautier: nelle sue parabole visionarie e assai poetiche il male non è così intriso di malvagità e d’altro canto il bene non è assoluto.
Queste abitudini notturne che mi spingono all’esplorazione del fantastico spesso mi si ritorcono contro in termini di impressionabilità qualora capiti un episodio fuori dagli schemi che spezzi, per esempio, l’incantesimo di un sogno in cui sono immersa.
Proprio quello che mi è capitato l’altra notte quando all’improvviso sono stata destata da un forte stridio, molto simile a uno strepito femminile.
Nel torpore del dormiveglia non ho subito associato questo suono a una spiegazione razionale, perciò ancora mezza addormentata ho teso l’orecchio in attesa di capire se si fosse trattato della mia immaginazione (non sarà superfluo aggiungere che la mia abitazione, per via delle sue caratteristiche architettoniche, si presta ad amplificare notevolmente i suoni, garantendo degli incubi in dolby surround) o di un incontro ravvicinato del terzo tipo con le carte in regola.
Il canto non si è fatto attendere: una sorta di urlo più lungo, un breve intervallo seguito da tre suoni ravvicinati e avanti di questo passo per un quarto d’ora.
Naturalmente il mio pensiero sonnacchioso è corso a un’infinità di racconti del brivido accuratamente conservati negli archivi della mia memoria nella sezione Horror, finché non ho pensato al succiacapre, noto per essere l’antico spauracchio dei bimbi capricciosi, una sorta di rapace vampiro secondo i miti popolari.
Allora la fiamma della ragione ha dipanato la nebbia del languore fantasmagorico, mi sono alzata e ho acceso il PC per navigare in cerca di quelle voci della notte che più potevano adattarsi alla mia singolare esperienza: il canto del gufo non poteva essere, quello del barbagianni nemmeno.
Ed ecco l’illuminazione uditiva: si trattava quasi certamente di un allocco (non l’ho potuto ammirare in tutta la sua fascinosa “piumosità”, ma il verso mi sembrava proprio il suo!).
Questo simpatico strigide è uno dei dieci rapaci notturni presenti in Italia e ha un nome scientifico alquanto singolare: Strix aluco.
Per gli antichi romani la strige era un’orrida creatura, un volatile che possiamo definire l’antenato di Carmilla e delle sue illustri compagne di "vampiresche" scorribande.
Il termine si è poi evoluto fino a divenire il nostro “strega”: se ci pensiamo la sua raffigurazione più classica è il naso adunco con le mani ad artiglio, una sorta di rapace in gonnella a livello figurativo oltre che etimologico, dunque.
In preda a cotante riflessioni mi è subito tornato in mente il mio amico immaginario e letterario preferito: il viandante solitario che, millenni fa, costretto ad attraversare i boschi nottetempo si è trovato ad ascoltare i suoni della notte.
Quali fattori più propizi se non lo scricchiolio dei propri passi unito alla luce irreale della luna per associare i misteriosi versi senza volto a malvagi esseri antropomorfi e svignarsela dall’oscurità il più in fretta possibile, pregando che arrivasse in fretta il giorno?
Queste suggestioni hanno probabilmente contribuito ad arrecare danno al gufo e alla civetta (e pensare che quest’ultima era simbolo di infinita saggezza, animale sacro ad Atena!), perseguitati in quanto associati a oscuri presagi di morte insieme ad allocchi e barbagianni unicamente a causa dei loro richiami, dello svolazzare quasi del tutto notturno e degli occhioni fissi e inquisitori.
Come al solito il fatto che siano predatori di bestie alquanto nocive per l’uomo (dei veri e propri insetticidi in carne e penne) e che siano creature schive e timide è passato in secondo piano e la superstizione l’ha fatta da padrona per secoli.
Per fortuna la reputazione di queste meravigliose creature è tornata a splendere nelle tenebre dell’ignoranza e oggigiorno quasi tutte, fortunatamente, sono specie protette, anche se è sempre più raro avvertirne la presenza, soprattutto in città.
L’unica occasione che abbiamo di ammirarli è spesso costituita da rievocazioni in stile Medievale con esibizioni di falconeria ad hoc, oppure in televisione, accecati dai riflettori tanto da apparire smarriti.
Vederli spauriti sui trespoli, anche se nati in cattività, mi causa una stretta al cuore; perché non c’è nulla di più triste per me che vedere un animale fiero e selvatico assoggettato al dominio dell’uomo, seppur con i più nobili intenti.
Cerco di immaginarli liberi nel loro habitat, sottomessi esclusivamente alle regole di Madre Natura.
Pensare a un rapace, notturno o diurno che sia, costretto ad adattarsi al contesto urbano è davvero ostico per me: queste a mio avviso sono vere e proprie contraddizioni dei tempi moderni.
Che sia stato più immediato, nel mio caso di dormiente destata da sconosciuti versi, ricorrere a spiegazioni del tutto fantasiose o pensare a qualcuno in vena di scherzi, piuttosto che ipotizzare la presenza di un’innocente bestiola, la dice lunga: in questi frangenti avverto sotto i miei piedi di cittadina farsi sempre più traballante il ponte fra natura e abitudine.
E allora rimpiango gli atavici legami con la Natura che rendevano in grado l'essere umano di coglierne immediatamente i segnali, quasi fosse possibile sentire la mancanza di qualcosa che non ho vissuto e che tuttavia attraverso la sua assenza mi affligge assai.